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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

Le lacrime per Caruso al Metropolitan

di Gigi Garanzini

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20 Agosto 2009

Il sogno impossibile di ascoltare dal vivo la voce di Enrico Caruso mi ha fatto di tanto in tanto compagnia sin da quando, bambino, andavo nell'appartamento di fianco a dar la buonanotte a nonno Gin. Era discretamente sordo, il padre di mio padre. Per questo il volume delle voci di Caruso, di Gigli, di Pertile che esplodevano dal radiogrammofono un po' mi affascinava e un po' mi travolgeva, sedimentando una melomania che si sarebbe poi fatta largo in età matura.
Una trentina d'anni più tardi, quando ormai da tempo coltivavo la passione alternando la Scala a San Siro, uscì Fizcarraldo. La fantastica storia di un melomane ossessionato da Caruso che risale su una vecchia nave il Rio delle Amazzoni, stregando con la voce del tenore napoletano indigeni e coccodrilli. Era l'82, e quella volta il sogno impossibile fu di accompagnare al cinema il nonno che giusto quell'anno sarebbe diventato centenario.

Sinché a fine marzo '91, in pieno mito pavarottiano al di qua ma soprattutto al di là dell'Atlantico, un amico non buttò là che Big Luciano debuttava Otello, sia pure in forma di concerto, e l'impresa (artistica ma anche atletica, a 56 anni) andava seguita e sostenuta dal vivo. Fu così che l'8 aprile mi ritrovai a Chicago, ad ascoltare con Nucci e la Te Kanawa un Pavarotti emozionato, raffreddato e ingolato al punto da saltare a piè pari, a metà del second'atto, l'acuto dell'«È questo il fin»: senza peraltro che nessuno in sala, a cominciare dal maestro Solti, facesse una piega.

C'è voluta insomma questa trovata del Sole per mettere a fuoco il giorno che sin dall'infanzia avrei voluto vivere. Il 23 novembre del 1903, la sera del debutto di Enrico Caruso al Metropolitan di New York. Non solo per assistere a una rappresentazione che fece epoca. Ma già pregustando anche quello che sarebbe accaduto dopo: quando, comunque fosse andata, sarebbero arrivati i napoletani di Little Italy. E a notte alta, come da lì in poi per il resto della carriera, Caruso avrebbe ricominciato a cantare per loro, con quell'inimitabile lacrima nella voce che avrebbe reso ancor più struggente le note di Torna a Surriento o Santa Lucia luntana.
Metropolitan dunque, interno notte. La prima di 607 recite in quel teatro, un repertorio di 40 opere. Caruso è il Duca di Mantova nel Rigoletto. Intona il primo recitativo, «Della mia bella incognita borghese», poche battute, ed è come se dal palco partisse una scossa elettrica. Da quale galassia arriva una voce così? Un minuto, e inizia la prima grande aria, «Questa o quella per me pari sono». Quando Caruso la chiude, cesellando l'ultima strofa, «Se mi punge, una qualche beltà», il Met in ebollizione lo ha già adottato. Il duetto con Gilda, «Il sol dell'anima», il «Parmi veder le lagrime» come tappe di avvicinamento al delirio dell'ultimo atto. «La donna è mobile», e poi il «Bella figlia dell'amore» letteralmente incendiano la sala.

Ha scritto Rodolfo Celletti, il Gianni Brera dei melomani: «Il canto di Caruso, di estrema spontaneità e naturalezza, affascinava per la compattezza del suono, per l'impasto vellutato, per l'accento incisivo e scandito, per le accensioni frementi e appassionate». Qualcuno tra i presenti in teatro aveva già avuto un'anteprima, perché sin dall'anno precedente l'antesignano Caruso aveva cominciato a incidere i primi dischi. Ma con le tecniche di allora si cantava nell'imbuto, e solo le più moderne ri-masterizzazioni hanno reso parzialmente giustizia alla sua fenomenale vocalità. Sicché, quel 23 novembre di 106 anni fa, la sensazione prevalente e condivisa fu quella dello sbalordimento: testimoniato d'altra parte dalle cronache come dalle recensioni.
Smessi gli abiti di scena, il tenore andò avanti a stringere mani e a firmare autografi e programmi di sala per un buon paio d'ore. Fumando a man salva (nei periodi di tensione arrivava a 40 sigarette al giorno) e cercando di limitare i danni con strane mescolanze che andavano da sorsi d'acqua salata, ad altri di whisky, a spicchi di mela. Quando anche gli ultimi ammiratori sgombrarono il camerino, e il dilemma era tra la cena ufficiale, con il cast al gran completo, o un boccone in albergo per stemperare lo stress, già attraversando l'atrio del teatro Caruso percepì che dall'esterno gli andavano prospettando una terza via. I resoconti dell'epoca fanno un po' di confusione tra centinaia e migliaia. Quel che è certo, è che erano napoletani. E finiti i battimani e le ovazioni, quando uno di loro disse «Maestro, se ci faceste l'onore...», Caruso rispose che lì di maestri non ce n'erano, e che l'onore lo facevano a lui.

Non so come. Ma non mi sarei fatto tagliar fuori. Li avrei seguiti con discrezione, come ai primi tempi con paròn Rocco, come a Madrid nella notte mondiale dell'82, ma mai e poi mai mi sarei perso lo spogliatoio di una partita così memorabile. Nacque da quella nottata tra guaglioni e pazzarielli, tra povera gente finalmente fiera di aver trovato il proprio ambasciatore, più ancora che dallo straordinario Rigoletto di poche ore prima, il mito americano di Caruso. La montagna di quattrini guadagnati nei 18 anni successivi tra Met e dischi incisi a Camden, nel New Jersey, l'avrebbe grosso modo messa insieme ovunque. Ma in nessun'altra parte del mondo si sarebbe sentito a casa propria come tra quei conterranei emigrati che gli scaldavano il cuore. E a cui poco alla volta prese a destinare, sotto il vincolo del più assoluto segreto, fette sempre più cospicue dei suoi guadagni.
  CONTINUA ...»

20 Agosto 2009
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